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Radio Quarantena

15 Gen
29 Ott

Dal mese corrente, gli articoli via via pubblicati sul blog verranno resi disponibili periodicamente sul sito internet della rivista in formato Word. Sono già disponibili gli interventi pubblicati tra il mese di aprile e quello di giugno del 2015. Il link diretto alla pagina è:

http://www.contraddizione.it/Contraddizioneonline.htm

19 Apr
nella sezione “NO! x Blog” sono contenute notizie e commenti su tematiche correnti, ordinate – a partire dal 2015 – secondo lo stile proprio della rubrica del NO! del volume cartaceo; in “avvisi” verranno inserite indicazioni relative ad imminenti iniziative; la sezione “articoli” contiene note e articoli connessi alle tematiche via via trattate già pubblicati sulla rivista oppure altrove;  All’interno di “indici della rivista” è presente il collegamento all’archivio completo degli articoli della rivista dal 1987 ad oggi.

QUATTRO RISPOSTE A DOMANDE DI “CUMPANIS”

11 Ott
Di Carla Filosa

Questo “articolo” è stato motivato da domande ( quelle numerate, in numero di 4) poste da un collaboratore della rivista online Cumpanis, per una sua pubblicazione avvenuta il 6.10.2021. Purtroppo una manipolazione nel rapporto domande/risposte da parte del suddetto collaboratore ha reso necessario un periodo di pochi giorni di pubblicazione su questa rivista  in cui le risposte articolate non risultavano più nella loro continuità e coerenza, ma fungevano da domande fittizie e risposte frammentate. Alla mia ferma rimostranza di siffatta scorrettezza e mancanza di serietà, tuttora presente nell’opportunismo vecchia maniera in un certo tipo di “sinistra”, si è provveduto in seguito alla ripubblicazione dell’intervista come concepita nella sua forma originale. Chi avesse avuto l’occasione di leggere in quei primi giorni questo mio modesto contributo, può però in questa sede sincerarsi di un filo di continuità di concetti che in questa forma appaiono più comprensibili o che comunque possano sollecitare riflessioni più articolate e puntuali in chi legge.

D1. Lo sviluppo di una società socialista presuppone condizioni oggettive e soggettive ben precise. A tuo avviso , queste condizioni sono presenti oggi o sono ancora molto al di là da venire?

Ponendo attenzione alle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione, si entra nel cuore della crisi attuale, di massa di plusvalore prodotta che non può essere realizzata, cioè trasformata in profitto. Per questo si licenzia senza grossi intralci normativi, riducendo il più possibile i costi relativi al capitale variabile, cercando contemporaneamente di stabilire accordi vantaggiosi per l’acquisto di materie prime a prezzi minori, e se non è possibile mediante la diplomazia, lo spionaggio o i servizi segreti, si destabilizzano paesi  con guerre a bassa intensità o per interposta persona a scopo di rapina delle risorse, come possibile. In altri termini lo sfruttamento lavorativo, mai sufficiente per l’accumulazione di plusvalore,  dev’essere integrato con la ricerca delle priorità immediate sulla concorrenza internazionale, nella corsa infinita alla supremazia pena la distruzione o vendita necessitata della propria attività produttiva, o in forma mediata, finanziaria.  Il ricorrente fenomeno delle controverse dislocazioni produttive mostra inoltre non solo l’attivazione continua del dumping salariale, ma soprattutto la concorrenza tramite l’uso degli stati nell’ottenimento di facilitazioni fiscali, legislazioni depenalizzanti, fruizione di infrastrutture gratuite, appalti per investimenti a basso rischio, ecc.

  Questo per quanto concerne la produzione. Per quanto invece riguarda la distribuzione del valore e plusvalore prodotto, a sfruttamento compiuto, i problemi delle proporzioni tra diversi rami produttivi e delle capacità di consumo delle società cui ci si rivolge (nazionali o estere) consistono nella distribuzione antagonistica, propria del capitale, per cui questa avviene in modo sperequato tra una grande massa di persone e una più ristretta di ceti abbienti. Un ulteriore limite distributivo è dato dal costante impulso ad accumulare, la cui legge viene a stabilirsi entro: 1) le incessanti rivoluzioni dei metodi produttivi (le cosiddette ristrutturazioni, anche quella in atto), da cui poi il capitale esistente subisce 2) un deprezzamento, oltre ad affrontare 3) una concorrenza in continuo mutamento, dovendosi infine 4) perfezionare la produzione ed ampliarne le dimensioni, pena, come si è detto, la rovina. In tali condizioni soggette alla costante trasformazione, risulta evidente la estrema difficoltà, se non proprio impossibilità del mantenimento di un controllo, da parte di qualsiasi organismo internazionale, non parliamo nemmeno se da parte dei lavoratori. 

A tutto ciò si aggiunge un eccesso di popolazione dovuta proprio all’eccesso di capitale. La sovrappopolazione relativa oggi risulta visibile non solo nelle parcellizzazioni lavorative, nei licenziamenti o nel numero dei senza lavoro, scoraggiati, ecc., ma anche nel fenomeno migratorio solo in parte riutilizzabile come forza-lavoro a basso costo, accompagnata da tutti i risvolti di emarginazione sociale deliberata. La perdita di vite umane nei trasferimenti forzati diventa il prezzo della sottomissione dei sopravvissuti. Se elementi di socialismo siano presenti in questo brevissimo ed emblematico quadro del nostro presente, non è dato sapere al momento. Le trasformazioni dell’imperialismo tuttora dominante non mostrano spazi per il superamento del sistema, ma solo l’acuirsi preoccupante di contraddizioni che pongono numerosi ostacoli alla vita in genere sul pianeta. La consapevolezza delle masse non ha raggiunto livelli che permettano la capacità di unirsi, organizzarsi in base a finalità strategiche definite. Il piano della protesta, della rivolta, degli scioperi, ecc. rimane settoriale, empirico, occasionale, limitato a sezioni minime e isolate del funzionamento del sistema. Non bisogna chiedersi a che ora si instaurerà il socialismo, ma studiare le modalità di trasformazione di questo sistema, in particolare i suoi errori,  per intervenire – se e quando possibile – per far cadere definitivamente il tasso del profitto, eliminati i salvataggi antagonisti continuamente attivati dal capitale ma, è certo, non in eterno, impossibilitati ad annullarne la necessità intrinseca al sistema stesso.

D2. Come inquadreresti l’acutizzarsi dell’imperialismo e la sua natura specifica nel contesto odierno?

Non mi pare che l’imperialismo segnali un’acutizzazione, bensì proceda nel suo percorso di “normale” avanzamento verso la definizione di un’egemonia mondiale, tendenzialmente costituita ovviamente dall’eliminazione progressiva di concorrenti troppo potenti. L’erosione delle zone di approvvigionamento di determinati stati, ad esempio, può avviare conflitti più o meno giustificabili – ma questo non è poi un grande problema – più o meno duraturi, più o meno estensibili, ma efficaci al fine di far rispettare comandi altrimenti inaccettabili. Ad esempio, l’indebolimento politico in Europa mediante le richieste Nato, o l’imposizione di petrolio Usa al posto di quello russo (proposto in Polonia), sono senz’altro la condivisione di costi militari non solo finanziari ed anche umani, ma forse più ancora la ricerca di un’egemonia politica mondiale non più basata sulla supremazia economica, sostituita da quella delle armi – sia come potenziamento di eserciti (ormai sempre più contractors oltre quelli professionali) sia di merci.  Le due guerre in Iraq, quella in Afghanistan, in Siria, ecc. stanno a dimostrare la difesa militare della onnipresente egemonia del dollaro, per le prime due soprattutto.  L’introduzione di un nemico irrintracciabile solo sul piano territoriale come il terrorismo per le ultime due, anche se con chiaro impegno in funzione antirussa, da poter condividere sia con partners che con nemici, nello stesso intento di unificazione coatta a proprio vantaggio.

E’ necessario tornare alle cause dei primi due conflitti sopra citati per capire che lo spodestamento del dollaro ha radici ormai lontane. L’imposizione del dollaro come valuta privilegiata avviata alla fine del 2°conflitto mondiale, in una fase cioè di crescita capitalistica, ha dovuto affrontare una contraddizione interna nel momento in cui, nel mercato mondializzato, la fase è diventata transnazionale. Pur essendo sempre su base Usa, il dollaro non ha più rivestito il precedente ruolo di facilitatore dell’accumulazione di plusvalore, ma è stato soggetto a una ridefinizione delle aree valutarie, in cui ha tentato di mantenere un vantaggio competitivo all’interno di una nuova divisione internazionale del lavoro (dislocazioni, esternalizzazioni, subforniture su scala mondiale, ecc.). Il difficile tentativo di Saddam di sostituire il dollaro come valuta di riferimento con l’euro ha così  determinato l’accelerazione della sua fine, impensabile finché la sua politica di sterminio dei curdi o di guerra all’Iran per ordine Usa non preoccupava le coscienze mondiali sulla violazione dei cosiddetti “diritti umani”.

L’ideologia neo-corporativa  divenuta necessaria come forma di controllo nella politica economica mondiale, non ha più una nazionalizzazione identificabile, ma attraversa l’intero mercato mondiale nell’abbattimento di tutte le frontiere esistenti. Il contrasto, non contraddittorio però, con l’innalzamento dei muri e delle frontiere anti-immigrazione è evidente, come pure gli inni nazionali e le bandiere a ricordare la divisione mantenuta per le masse e gli stati agli ordini del capitale, libero questo, invece, di spaziare ovunque sia possibile investire o speculare per ramazzare il plusvalore in crisi. L’unica libertà salvaguardata è dunque quella del capitalismo monopolistico finanziario nell’indirizzare e controllare ormai l’economia reale, nell’individuazione delle aree d’investimento più proficue e l’allargamento oltre confine dell’area valutaria del dollaro. Strategie industriali, commerciali, bancarie, assicurative, ecc. possono così essere spostate a seconda dell’uso trasversale di aree valutarie differenti e indipendenti dalle zone geografiche d’influenza.  Ciascuna area di riferimento mondiale poi viene gestita dalle banche centrali, dalle borse e dai governi dei maggiori stati imperialistici, che così mantengono e ridefiniscono il loro ruolo all’interno di una centralizzazione strategica finanziaria (holdings) con  decentramento operativo produttivo, per specificare il rapporto mutevole tra costi di produzione e prezzi di vendita dei beni finali o prodotti intermedi.

Il cosiddetto dominio della “finanziarizzazione” è in realtà la mancanza di comprensione del mutamento imperialistico nell’estensione del mercato mondiale  del capitale – così adeguato al suo concetto sottolineerebbe Marx –  che però noi oggi, abituati al pressappochismo aconcettuale della compagneria della frase, possiamo solo correggere con lo sviluppo del denaro come capitale (non come reddito), sedimentato nel cuore dominante della concentrazione finanziaria, nella visibilità e nell’organizzazione  prevaricante tutto il decentramento produttivo e distributivo, sparso ovunque sia più conveniente ai capitali più forti.

Il mantenimento della base finanziaria localizzata,  relativamente a tutte le aree del pianeta, diventa visibile soprattutto con gli Ide (investimenti diretti all’estero), che si indirizzano proprio là dove  il costo complessivo del lavoro oltre all’area valutaria di riferimento risulta più basso.  Quindi si provvede alla segmentazione in filiere produttive dei cicli lavorativi, compreso il lavoro a domicilio, se si ravvisa conveniente tutto l’insieme anche relativo a trasporti e infrastrutture per un’economia più competitiva. I costi da sostenere non dovranno essere pagati in valute locali inferiori ai prezzi finali di vendita, presumibilmente fatturati in dollari, che quindi saranno responsabili di sperequazioni foriere di insostenibili indebitamenti. La fluttuazione del corso dei cambi risulterebbe perciò letale per le economie “emergenti”, o sommerse che siano, dato che se si fosse “ancorati” al dollaro l’indebitamento eventuale sarebbe molto più elevato di quello realizzato nelle più modeste valute locali, soggette mediamente a forte inflazione e così a un corso dei cambi troppo mobile.  L’enorme disavanzo commerciale Usa è stato ripagato dal drenaggio in dollari di capitali  ide o di portafoglio da tutto il resto del mondo. Qualunque potenziale intervento sul corso dei cambi dei paesi dominati è stata vanificata, realizzando in tal modo una quota di ricchezza appropriata  ed estorta a tutti i lavoratori dei paesi esteri.

Oggi la dollarizzazione del mercato mondiale presenta varie crepe dovute proprio alla perdita di controllo della produzione mondiale sostenuta dal potere militare e politico Usa,  affiancato da altre potenze e da organismi sovrastatuali che ne ridisegnano l’influenza entro anche i gravi problemi posti dal degrado planetario.  “La natura specifica” dell’imperialismo va inquadrata quindi nel dominio, per ora scarsamente contrastato, del denaro-capitale nella sua forma ultima della transnazionalità e della permanenza della tradizionale conflittualità duplice a) tra capitali, e b) nei confronti della forza-lavoro, da ridurre a sola forza produttiva capitalistica. Tutti i problemi legati alla sopravvivenza, oltre che alla vita in generale sul pianeta, sono considerati indifferente retorica  rispetto all’agognata valorizzazione.

D3. Come leggi la realtà presente della conflittualità sociale? Con quali strumenti il capitale sta tentando di recidere alla radice la possibilità della creazione di una coscienza di classe?

Anche qui la conflittualità sociale attuale parte da lontano. La coscienza di classe è tuttora appannaggio delle classi dominanti internazionali nell’esercizio del potere e soprattutto dell’arbitrio. Il potere significa proseguire nel drenaggio di ricchezza socialmente prodotta  da estorcere alle masse sottomesse, attraverso una produzione ormai sottratta ai bisogni e finalizzata alla sola realizzazione del plusvalore. Per questo è necessario essersi impadroniti dello sviluppo scientifico indirizzato e utilizzato nei suoi risultati verso i fini lucrativi suddetti, superando pertanto gli ostacoli posti dalle contraddizioni intrinseche al sistema, nel rinvio continuo degli impedimenti materiali e nell’offuscamento di qualunque barlume di consapevolezza nelle masse da sfruttare. Non potendo impedire del tutto il sorgere di una coscienza individuale, nonostante i limiti che le si frappongono se non proprio persecuzioni o singola eliminazione, che almeno questa non si espanda in forme collettive e soprattutto organizzate. A ciò non si risparmiano mezzi.

Il più efficace e tradizionalmente testato è l’impoverimento proprio del sistema. La produzione parallela di miseria – necessaria – viene rinforzata dal trasferimento della crisi di capitale (ininterrotta  di fatto dalla seconda metà degli anni ’60) in crisi di lavoro, arricchita, quando opportuno, da repressioni stragistiche (sempre rinnovabili alla bisogna) o corporative (mediate da governi “tecnici” e sindacati collusi), da inoculazioni di razzismo, xenofobia, rigurgiti fascisti scambiati per folklore, ecc. La sostanza di questo mix sempre aperto sta nel veicolare nel lavoro una miriade di differenziazioni e frantumazioni, volte non solo al frazionamento salariale e quindi all’uso parcellizzato della forza-lavoro, ma anche all’impossibilità di riconoscersi da parte di questa nell’identità di classe da occultare. L’introduzione di macchine ormai generalizzata ha ridotto numericamente la necessità di lavoro umano, ma non la quantità lavorativa per addetto, e per giunta meno remunerata, inducendo così a una pluralità di jobs, o lavoretti, che consentano di vivere prima di arrivare all’elemosina. Se nel nostro “occidente” pacificato la flessibilità del lavoro – e cioè la svalorizzazione costante della forza-lavoro mercificata – ha permesso quest’immagine desiderabile del sistema, che lascia convivere mafie e governi, pandemie e sanità privatizzate previo smantellamento di quelle pubbliche, ecc., nel sottomondo dell’imperialismo visibile l’immiserimento delle popolazioni viene organizzato con mirati colpi di stato, o con guerre “a bassa intensità”, che, pena la morte, producano profughi  bisognosi in prospettiva proni a qualsiasi ricatto lavorativo si vorrà loro imporre. Nel nostro Bengodi, invece, licenziamenti e morti sul lavoro insegnano a chi vive di lavoro che l’insicurezza delle proprie condizioni è strutturale, ma – c’è da crederci – può esser mitigata con le leggi sulla sicurezza varate dal governo. Peccato  che queste siano l’uso della legalità borghese per la sola protezione dei ceti abbienti, contro  “l’invasione” degli immigrati: forza-lavoro potenziale da mettere nelle condizioni di inferiorizzazione costruita, rispetto a cui potersi sentire tutti più garantiti e mantenere intatto il comando sul lavoro!

La coscienza in chi subisce si produrrà per effetto dello sviluppo ulteriore delle forze produttive, ancora gestite entro un’organizzazione sociale inadeguata e frenante. L’acculturazione “degli incolti” – secondo la lezione engelsiana – contro la cultura dominante potrà concretizzarsi solo se spinta dalle necessità materiali, quale forma di moto del modo di produzione capitalistico. Tutte le mistificazioni, i diversivi, gli occultamenti che il capitale organizza per arginare la crescita coscienziale di classe avversa sono sicuramente efficaci dissuasori, ma non possono cancellare la realtà della distruttività naturale e storica di questo processo, quella da cui promana la coscienza. Il conflitto sociale è ineliminabile in questo sistema e riposa (si fa ironia!) sul concetto di lavoro salariato. Non  viene capito il rapporto sociale anche  perché la stessa apparenza di salario occulta il reale. Sembra infatti scambio tra eguali mentre  al contrario non si rileva la superiorità contrattuale di chi acquista  rispetto a chi vende la propria forza-lavoro alle condizioni imposte. Il salario non ripaga tutto il lavoro erogato, ma solo una quota che viene continuamente minimizzata, rosicata a favore di quell’altra parte onnipresente gratuita. Solo la conoscenza scientifica permette di rintracciare l’origine dello sfruttamento, della dipendenza, della ineguaglianza, della esclusione dalla ricchezza prodotta, in una parola dell’appartenenza alla classe subalterna, privata della proprietà dei mezzi di produzione.

Aiutato dall’abbaglio fenomenico, il capitale ha avuto – finora – buon gioco a sostituire alla coscienza di classe l’omogeneizzazione dei consumi, modelli, aspirazioni, immaginario, divertimento (peraltro antico: panem et circenses!), e ogni dissimulazione delle differenze, che però riappaiono oggi, sorprendentemente in aumento (!) da sotto il tappeto della crisi mondiale irresolubile. “Prima condizione dell’emancipazione sociale è la consapevolezza”! Ma chi conosce oggi Marx, chi ha letto “Lavoro salariato e capitale” in cui questa affermazione era la premessa  di tante informazioni da dedicare ai lavoratori del 1847-49?  Il capitale sfruttava diversamente 174 anni fa? I lavoratori erano più intelligenti e/o capaci? A queste domande volutamente senza risposta possiamo solo  replicare, come posteri, che i capitalisti hanno studiato attentamente questo breve saggio ed hanno loro sì risposto: hanno isolato i conflitti sociali, diviso senza sosta i lavoratori, istituzionalizzato e legalizzato le loro fragili organizzazioni, criminalizzato il dissenso e organizzato il consenso tramite partiti, sindacati, intellettuali organici alla borghesia, politiche sul lavoro, welfare (introdotto per primo da Bismarck!), infine 2 guerre mondiali di sterminio delle popolazioni civili, del cui effetto boomerang seguìto alla prima, hanno pagato un prezzo durato più di 70 anni, che non vorranno più pagare.

 La violenza strutturale e monopolizzata nella legalità di questo potere deve occultare, non generare sapere reale che potrebbe riconoscerne l’origine e magari restituire una risposta rivoluzionaria come “levatrice della storia”! I guardiani di questo reparto di ostetricia sono però attenti a spargere le virtù del subire, quali pazienza, spirito di sacrificio (sempre richiesto, anche dai sindacati!), la neutralità al di sopra delle parti cui è inserita anche l’informazione, l’Economia, l’ideologia scientista e ogni altra rappresentazione spacciata per verità invece di essere quella degli interessi dominanti. E questi si esprimono nella conoscenza del solo particolare, nel solo pragmatismo o nella barbarie intellettuale, quale contagio sociale permanente. La visibile violenza politica  dei tempi feudali – che garantivano nell’obbligo la produzione del pluslavoro – ha spento i riflettori nel passaggio al diritto capitalistico, al contratto economico con una forza-lavoro ormai libera di disporre di sé giuridicamente tranne che per campare, il cui nuovo obbligo, questa volta apparentemente interno alla necessità della propria sopravvivenza, la spinge a vendersi a qualunque condizione pretesa. Riaccendere i riflettori su questa  nuova violenza sotterranea , radicata ormai in tutto il mondo e che emerge non solo in forme militari ma nell’immiserimento e distruttività del pianeta in tutti i continenti e in tutti i paesi, secondo un disegno di classe che la teoria rivoluzionaria marxista è in grado di individuare, illuminare questa realtà al netto delle mistificazioni orchestrate può essere un primo passo per ricostruire il tessuto sociale disgregato e disperso nei fittizi individualismi il cui destino somiglia a quello dei ciechi di Bruegel.

D4. Concludendo, mi piacerebbe chiederti quali sono a tuo avviso i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva comunista in Italia.

“Una conoscenza più o meno completa del marxismo costa oggi dai 20 ai 25.000 marchi-oro, e senza tutte le finezze e i dettagli. L’efficienza diminuisce notevolmente, dopo una lettura approfondita di Marx; in determinati campi, come la storia e la filosofia, non si ridiventa mai più veramente «bravi» dopo esser passati attraverso Marx”.  Con questa citazione dai Dialoghi di profughi (1941) di B.Brecht comincio a rispondere dato che per parlare di “prospettiva comunista” bisognerebbe sapere cosa sia “prospettiva” non meno di “comunismo”, e qui allora conoscere Marx, e non a peso. Se si rivolge uno sguardo patriottico alla sinistra italiana – e non solo -, fuori e dentro il parlamento, si notano gli effetti di sforzi compiuti in un recente passato per eliminare  Marx dal novero della conoscenza, per terminare con l’eliminazione anche di questa, nell’ambito della “storia e della filosofia” che dava conto di un filone analitico denominato materialismo, in cui potesse dimostrarsi la vita sociale in tutte le sue espressioni essere determinata da condizioni materiali mutevoli del ricambio organico (o metabolismo) con la natura. Senza gridare subito al determinismo, dato che si tratta di una concezione dialettica, anch’essa rimossa in quanto disarmonica col pensiero dominante che si è voluto considerare “unico”, le conseguenze di quegli sforzi, sotto i nostri occhi oggi, hanno prodotto un “comunismo” senza Marx, un marxismo sezionato e “innovato” divenuto plurale e commestibile nei molti marxismi, a piacere, e per quanto riguarda il processo della transizione da stravolgere, ci si interroga su prospettive astratte da basi inesistenti. Quell’amico quasi sconosciuto di Marx, Engels , nel parlare sulla “guerra dei contadini” del 1525 (!) riuscì a vedere analogie con la repressione subìta dopo il 1848 in Germania, ancora presente mentre scriveva a due anni di distanza, e sosteneva che: “Sarà dovere dei capi di tenersi di più in più al corrente di tutte le questioni teoretiche, di liberarsi di tutte le frasi morte, appartenenti alla vecchia concezione della vita, e di tenere presente che il socialismo, da quando è divenuto scienza, deve esser trattato ed esercitato come una scienza, cioè studiato”.

Queste parole non servono a niente se si pensa che la presa del potere la si può scambiare con una poltrona da sindaco, assessore, deputato o altro, lasciando senza commento chi invece dagli scranni che contano abolisce la povertà per decreto o, nel trastullo di escort  e politiche difensive degli interessi privati, si è attenti ai soli piani alti di una politica da imitare o in cui inserirsi ad ogni costo. In una delle vignette di Altàn, due omini con basco in testa si confrontano, dicendo l’uno “hanno ottenuto quello che volevano” e l’altro in risposta con sguardo fisso nel vuoto “tanto, noi non volevamo niente”. La genialità sintetica di Altàn esprime sì l’amarezza della delusione, ma ciò che interessa qui è l’alto livello di astrazione di processi andati in porto, quali un dominio incontrastato di forme determinate della produzione capitalistica capace di trascinare oggettivamente, nella realtà sociale, l’oblio coscienziale di qualunque possibilità difensiva, di riscatto, di emancipazione dalla subordinazione costantemente sofferta dalla classe lavoratrice. “Non volere niente” implica quindi non voler o saper indagare la realtà, la specificità di questo sistema nei suoi sviluppi continui, in un ambito teorico senza il quale ogni lotta è un tentativo casuale, un atto empirico accidentale dopo il quale può stare in agguato la delusione, il rivolgersi a propagande più convincenti o fascinose, perché no, anche destrorse!

“Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”.

Sono molti anni in cui la classe lavoratrice è stata lasciata allo sbando, senza una direzione né una formazione politica nella quale rappresentarsi o sentirsi rappresentata, e non a parole. In compenso aumenta il comando sul lavoro, aumenta l’impoverimento, aumenta la disgregazione sociale e lavorativa, aumentano frammentazioni contrattuali, aumenta la competitività e divisione della classe, aumenta l’espulsione lavorativa a causa delle ristrutturazioni con richieste di ulteriori specializzazioni, ecc. Bisognerebbe intanto che si prendesse atto di siffatta concretezza capitalistica – peraltro vissuta dai lavoratori in prima persona – riconducendola alle cause materiali, storiche, cioè transeunti, caduche, di questo sistema come potenzialmente trasformabile, non in vista del paradiso in terra, ma della possibile gestione razionale, collettiva dei produttori, per ora espropriati. Restituire in altri termini al comunismo la sua sostanza, al cui scippo ha partecipato allegramente tutta la sinistra opportunista in attesa di benefici dal potere borghese. Pretendere  magari una legislazione a favore non della liberalizzazione della cannabis – come priorità – ma della legalizzazione degli immigrati, a che non vengano clandestinizzati né costituiscano forza-lavoro al ribasso salariale, unitamente allo ius soli come pratica di civiltà,  potrebbe essere un doppio passo per riunificare la classe e renderla più forte sul piano contrattuale.    

In altri termini più che di “ricostruzione” bisognerebbe parlare di costruzione del comunismo, dato che un secolo almeno di demolizione culturale, e non solo, hanno lasciato sopravvivere un’idea utopica di comunismo, cioè irrealistica, intorno a cui si è costruita una cintura sanitaria di disprezzo verso un tentativo loser, perdente, nel pieno rispetto dell’ideologia Usa, in seguito al “suicidio” dell’Urss e del Comecon, e sicuramente da abbandonare o compatire nei ricordi dei nostalgici. Costruire vorrebbe significare allora partire da questo zero raggiunto, inteso come riconquista della sua sostanza mistificata e poi cancellata, sostituita dal teatrino della illiberalità verso gli individui, nell’esecrazione del non rispetto di “diritti umani”, “mai coverti” (si direbbe a Roma!), della carenza di merci appetibili, del governo oscurantista, and so on denigrando. Bisognerebbe fare giustizia di tutte le fandonie made in Usa circa il “meno-stato-più-mercato” di marca reaganiana, che significava invece un più-stato finanziario entro un più-mercato e un meno-stato sociale di derivazione keynesiana. Questo attacco neoliberalmonterarista  allo stato sociale cosiddetto è stato la premessa dell’ineffabile ’89, suicida per mano altrui. Di qui il fascino di un keynesismo apparso, all’incolta sinistra doc, come il socialismo avviato, da sostituire all’incomprensibile comunismo appaiato al fascio-nazismo come “totalitario”, ignorando peraltro che per il lord suddetto socialismo e sindacalismo  erano solo il “microbo del «malessere» della civilizzazione”. Di contro, la sua proposta di “benessere” del welfare state che nasce dall’“atteggiamento dell’individuo e della comunità di fronte all’amore del denaro” oltre che dalla possibilità concessa “a un giovane rispettabile” nella “carriera di fare quattrini, quanti più quattrini possibile”. Ciò non ha destato sospetti sinistri in chi sosteneva che “un figlio dell’Europa occidentale, istruito  perbene e intelligente” può essere comunista, nella “paccottiglia delle librerie rosse”, solo se è stato “precedentemente sconvolto da qualche strano e orribile processo di conversione”.

Fare pulizia non solo delle restaurazioni e relative ideologie, a partire da quella degli anni ’80 in poi, nell’ambito dei riferimenti teorici della cosiddetta sinistra, significa pertanto eliminare la credulità sapientemente indotta dagli interessi del grande capitale, non solo nei supposti rappresentanti del popolo indistinto, ma in quelle avanguardie che tuttora esistono e che possano schierarsi entro criteri di classe. Sparito che sia quello zero obbligato, dunque, ivi compreso l’attuale rovesciamento apparente del “più-stato-meno mercato”, l’analisi marx-engelsiana è l’unica forma di criterio scientifico di cui disponiamo per conoscere prima e poter combattere poi il sistema cangiante in cui siamo tuttora immersi. Oggi la classe sfruttata è mondiale, divisa per nazionalità,  funzionalità produttive, etnie, lingue, ecc. O si capisce in che modo la nuova divisione del lavoro coarta in differenti forme i produttori, relativi eserciti di riserva e cascami umani da gettare al macero, o non riusciremo ad avere come prospettiva altro che la prosecuzione di questo sistema, la cui morte dipenderà dalla sola cancrena dovuta ai suoi limiti intrinseci.

Ri-attivazione sito Gianfranco Pala

8 Mar

Finalmente siamo riusciti a riattivare, benché in forma provvisoria, il sito personale di Gianfranco Pala, a seguito della misteriosa e inspiegabile cancellazione del precedente provider.

Questo il link

gianfrancopala.altervista.org

Nuovo sito!

27 Feb

Con estremo piacere vi segnaliamo la riapertura, dopo un periodo di oscuramento dovuto a poco comprensibili dinamiche del web, del sito della rivista che, identico al precedente è consultabile all’indirizzo http://www.lacontraddizione.it

LAPSUS E “RAZZA BIANCA” — xeno\islamo\fobia razzista

8 Giu

riproponiamo questa nota già pubblicata nel 2018 che mostra come già allora fosse chiara la natura del Fontana governatore della Lombardia

 

lapsus

Con il sedicente jobs act (in cui la conclamata crescita dell’occupazione è dato che per l’85% essa comporta contratti di lavoro a tempo , e anche il restante 15% può essere anche a tempo o pure , ecc., comunque precario, la spregevolezza si prolunga fino alla xeno\islamo\fobia razzista dell’”America first” trumpista, goffamente scimmiottata da Salvini con , il cui obiettivo comune è ovunque la disuguglianza fra lavoratori differenti. Questa è esattamente la negazione dell’art.3 della costituzione italiana del 1948 che dichiara tutti “uguali davanti alla legge, “senza distinzione” di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” [i cui temi dell’uguaglianza trovarono una generalizzazione nella Dichiarazione universale dei diritti umani (sottoscritta dall’Onu sempre nel 1948, dove si afferma nell’art.2 che “tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, “senza distinzione” alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”]. Con buona pace del di Varese Attilio Fontana il quale ha concionato dicendo che la “razza bianca (sic!) va difesa dall’arrivo degli immigrati” ricevendo il pieno appoggio del suo segretario politico Matteo Salvini: “al governo normeremo ogni presenza islamica nel paese, siamo sotto attacco; sono a rischio la nostra cultura, società, tradizioni, modo di vivere: è in corso un’invasione” e l’approvazione del , il resuscitato Berlusconi. Ma da un’orgia di fasci\razzisti, sia nostalgici sia anche neofiti, non ci può aspettare altro.

Piuttosto vale pena soffermarsi un minuto, a conferma generale della fetente feccia di cui è composto il vomito verbale di simile gentaccia, ignorante anche dell’uso della lingua: non sa che dire “lapsus” dopo quel che ha proferito il leghista non ha neppure un senso appropriato. Senza più entrare nel merito sociale e politico della questione – ormai sepolto sotto una valanga nera d’immondizia e specificato una volta per tutte che la parola “razza” non implica né la sostanza né la conseguenza logica letterale di “razzismo”; anzi, avendo un significato del tutto diverso – sarebbe bastato un po’ di italiano per sapere quali siano gli usi sintatticamente corretti di codesta parola. Intanto che la circostanza, in molti soggetti, tale fenomeno si manifesti improvvisamente e con frequenza quasi casuale e involontaria, allorché una specifica parola viene confusa o dimenticata (e figurarsi se sia stato il caso di Fontana!); né merita tirare in ballo la psicoanalisi che considera i lapsus come conseguenze di “atti mancati”, in quanto forme di espressione indiretta dell’inconscio: e per i leghisti\razzisti più che un inconscio si tratta piuttosto di un . Secondo Freud solo apparentemente è casuale, ma sarebbe la manifestazione di un desiderio inconscio attraverso il quale trovano sfogo pensieri censurabili nella vita quotidiana e, in generale – manco a dirlo – di natura sessuale [chissà se Freud lo attribuirebbe pure a Fontana o Salvini]: secondo i canoni “scientifici” basta considerare i lapsus linguæ (errore della lingua, nel pronunciare una parola diversa da quella che si è cercato di dire), lapsus calami (errore nello scrivere una parola diversa da quella che si è cercato di scrivere), lapsus memoriæ (per un vuoto temporaneo di memoria se non si ricorda una certa parola ma che si ha l’impressione di averla in punta-di-lingua), fino ai lapsus manus: (incapacità di compiere un gesto della mano, facendone uno diverso da quello che si cercava di fare), ecc.

Neppure queste classificazioni tassonomiche sono calzanti per i leghisti, perché non si tratta delle diverse

attribuibili al “lapsus” ma al sostantivo in genere, che significa tutt’altro. Sia la “dichiarazione universale” Onu sia la “costituzione italiana” sottolineano che le norme vanno applicate “senza distinzione” alcuna “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita, di condizioni personali e sociali o di altra condizione”, ma non di “specie”: ossia soltanto l’unica e comune specie umana è presa in considerazione. Dunque tutto ciò allora vuol dire che <razze, lingue, religioni, sessi, ricchezze, circostanze di nascita, nazionali, opinioni politiche e altre> sono diverse ed esistono realmente; e in concreto i vari “-ismi” da tutto ciò fatti inopinatamente derivare – e che purtroppo anch’essi , ma solo come epifenomeni, sia pure – vanno combattuti fino in fondo e demoliti perché illogici e irrazionali — tranne che e finché codeste mostruose abbiano il sopravvento. Le conseguenze sociali di tali mostruosità sono sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che non vedono. Altrimenti per quale motivo si sarebbero ineguaglianze tra le condizioni di lavoro e di salario per le donne, perché ci sarebbero persecuzioni tra religioni diverse (a turno tra cristiani, ebrei, musulmani, panteisti e animisti), discriminazioni rispetto a popoli ed etnìe diverse: provate a far cantare un blues o ballare un boogie a un negro [così si chiamano fra di loro e non “nero”, che è un’ipocrisia borghese] di origini africane e confrontate se ci sono differenze con un umano di origini asiatiche, coreano o giapponese; o chiedetevi perché la condizione femminile è di norma sempre sovrastata da quella maschile, in tutte le circostanze, a partire dai lavori [differenze di opportunità, avanzamento professionale, norme contrattuali, remunerazione (recenti dati Onu documentano che internazionale, quindi con punte locali molto maggiori, le donne sono pagate il 23% meno degli uomini)] non soltanto ovviamente tra borghesi e proletarie, ma anche entro ciascuna classe sociale; e perché oggi sono cresciuti a dismisura gli assassinii delle donne da parte dei maschi (insieme alla loro visibilità), ecc. Insomma, che fine ha fatto la proclamata del “senza distinzione”, se è evidente che l’inferno (se ci fosse) avrebbe una rete stradale lastricata al meglio!

 

Messaggio oltre la “pandemia”

7 Apr

Al posto dell’occhiello, la citazione di una parte finale della poesia di B. Brecht, intitolata “Messaggio” viene qui riportata all’inizio di queste brevi osservazioni sull’andamento della pandemia in atto, data la stretta attinenza ai problemi che ognuno di noi sta vivendo, quotidianamente assillati da informazioni contrastanti, in un disorientamento forse non voluto e comunque di impianto istituzionale assolutamente nuovo.

III “Messaggio a medici e infermieri”

«Ora a voi, medici e infermieri. Pensiamo
che anche fra di voi ci debba essere qualcuno,
pochi forse, ma qualcuno sì, che
si rammenti dei doveri verso quelli
che hanno, come loro, apparenza umana. Invitiamo
costoro a sostenere i nostri ammalati
nella loro lotta contro le Mutue e le consuetudini ospedaliere
che riguardano la classe oppressa.

Impegnarvi in lotta con altri, con gli strumenti compiacenti
dello sfruttamento e dell’inganno. Vi chiediamo che questi
voi li consideriate come nemici vostri. Facendo questo
voi combattete solo la vostra propria battaglia contro i vostri sfruttatori
che ora vi minacciano di quella medesima fame
che ha fatto cadere il nostro compagno.
Lottate con noi!»

Il «compagno» della poesia riguardava un comunista ammalato di tubercolosi, abbandonato alla fame e all’umidità, cui giunge l’esortazione a lottare sia contro la malattia sia contro l’oppressione, che l’«hanno fatto ammalare». Oggi la tubercolosi, flagello durato fino al secondo dopoguerra, è stata confinata e quasi debellata nei Paesi sviluppati, mentre è ancora una delle prime cause di morte nei paesi più poveri dell’Africa e dell’Asia con circa 2 milioni di morti l’anno. Ora è invece in pieno corso non più il bacillo di Koch, ma un coronavirus altrettanto se non più pernicioso e meno riconoscibile del mycobacterium ormai individuato, nuovo esito anch’esso della continua guerra di classe, non più necessariamente ovunque sempre armata, ma agita tramite patogeni. L’eccezionale diffusione di questo virus è dovuta proprio all’interconnessione dei profitti confliggenti e indifferenti ai pericoli reali dell’economia integrata, all’inquinamento planetario, all’impoverimento – e quindi alla maggiore vulnerabilità – della maggior parte della popolazione mondiale, quali concause ancorché indirette ma compresenti. Le migliaia di morti in tutto il mondo, con certezza stimate per difetto, quelle dei contagiati e il rischio per la popolazione restante fanno correre ai ripari i rispettivi governi nell’applicazione di misure restrittive e di chiusure nazionali parziali, con risultati differenziati per zone territoriali. Il generoso tentativo di virologi e scienziati di tutto il mondo per diminuire almeno «di un millimetro cubo» l’attuale ignoranza (nonostante alcune previsioni da parte anche di scienziati!) che vela il comportamento di questo virus, non ha per ora fornito risultati definitivi e si brancola tra prove sperimentali di terapie da adattare. In tale situazione di incertezza l’escamotage di distogliere l’attenzione dalla realtà di effettiva minaccia generale, si avvale di due elementi distorsivi principali: a) inoculare paure legandole alla cosiddetta “emergenza”, peraltro leit-motiv di ogni crisi, ed b) esaltare retoricamente il già bistrattato personale sanitario , decurtato di 8.000 medici e 13.000 infermieri soprattutto nel sud italiano, dato il taglio di ben 37 miliardi di euro tra il 2010 e 1l 1019 ( da Berlusconi a Monti di 25 miliardi, e di 12 miliardi da Letta, Renzi, Gentiloni, Conte). Le paure si sversano ora nel contenitore dell’obbedienza coatta alle restrizioni sociali, e i sanitari vengono celebrati come eroi in prima linea. Lo stato di guerra poi è così materialmente e forzatamente rivolto contro il virus, mentre non si fa menzione di quella precedente condotta contro la sanità e per l’impoverimento della popolazione, ridotta nelle condizioni di degrado sociale e ambientale dall’esazione forsennata dei profitti in preda alla loro crisi, ormai da decenni sì pandemica. L’esorbitante numero dei morti nel nord Italia avrebbe potuto essere molto inferiore, ma tanto ormai non se ne tiene neppure più il conto nemmeno nei necrologi per non dare consapevolezza dell’entità del disastro umanitario, controproducente realismo a smentita dell’immagine di una edulcorata pace sociale..

L’attualità drammatica di questo poetico appello brechtiano ce lo fornisce casualmente una lettera di un’infermiera diretta al presidente Conte e pubblicata da Il Fatto Quotidiano (22.03.2020). Per chi non l’avesse letta se ne riporta una sintesi sostanziale. La lettera si inizia con il rifiuto dei 100 euro premio stanziato per i lavoratori sanitari, in quanto – si dice nella conclusione – il lavoro svolto da tutti vale infinitamente di più e condotto in condizioni personali gravosissime, di cui negli spalti del potere si ignora tranquillamente ogni dettaglio. Il rifiuto poi, riguarda sia l’apprezzamento sia l’elemosina riservati a questi lavoratori, implicitamente motivato dalla necessità di sottrarsi a forme ipocrite di copertura di ciò che da anni è stato realizzato nella sanità, finora considerata un “bancomat dei governi”. La condizione di “PAURA” del contagio cui sono stati inoltre abbandonati, è data dalla carenza di dispositivi di protezione che dovrebbero essere d’obbligo, sia da un punto di vista specifico del settore sia da quello genericamente umano.
Lo stato di sofferenza individuale, poi, cui questi lavoratori sono sottoposti, non avendo prezzo – si può aggiungere qui, – non viene contabilizzato da un governo prono ai comandi della lucrabilità privata, che dovrebbe invece – riprende la lettera – rimettere mano al contratto di tutti quei lavoratori del settore che sono stati dirottati in convenzione, a partite Iva, a tempo determinato, a chiamata, all’estero, senza specializzazione, ecc. economica.

L’appello alla lotta di Brecht – per chi lo vuole e lo sa leggere – è come recepito internamente a ogni riga di questa lettera scritta a ben 81 anni di distanza, appassionata e drammatica, forse anche inconsapevole di essere stata preceduta negli stessi contenuti. Vengono denunciati infatti tanto «gli strumenti compiacenti dello sfruttamento» ideologici e pratici, quali i ringraziamenti – non della gente comune più che confortanti e graditi invece! – e la definizione “eroica” della dedizione profusa, quanto la miseria di quel centinaio di euro, rispetto ai milioni annui sottratti e sottaciuti. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” sosteneva il Galilei brechtiano a fronte della costrizione all’abiura! E gli eroi sono sempre quelli negati o mandati a morire e che inaspettatamente sono riusciti a sopravvivere, salvando anche altri. E sventurati siamo anche noi
che, data la carenza di forze per combattere in tempo il depredamento del settore sanitario nazionale, siamo stati costretti a riversare la nostra mancanza collettiva su quella esigua parte di noi che deve così rischiare vita, affetti, energie, equilibrio psicofisico, ecc., perché condannata alla precarizzazione estrema che, grazie solo ad un virus micidiale, emerge in tutta la sua distruttività sociale ora sotto gli occhi di tutti. Questa precarizzazione sanitaria poi è la stessa che porta i contagiati ai loro ospedali, dove non solo le fasce più deboli della popolazione cedono all’infezione, ma anche – forse soprattutto – quelle impoverite e perciò obbligate a lavorare in qualunque condizione di ricatto, affinché si perpetui il dominio dei profitti. Quella «medesima fame», che condanna ad ammalarsi, è quindi il motore ricorrente della necessità di una lotta comune ancora sempre più attuale, contro sfruttatori e ingannatori per «combattere la propria battaglia» in modo unitario, così solo potenzialmente efficace.

Non è allora lo “spirito di sacrificio” che il sistema premia con i centesimi e loda con lusinghiere parole, ma è l’accoglimento forzato – e per lo più inconsapevole – di questa sorta di destino liberista etero-pilotato dai signori delle cliniche private e delle privatizzazioni ed esternalizzazioni -finché-si-può, che rende la professione un martirio e l’etica sociale una pratica straordinaria. I governanti – anch’essi inconsapevoli delle ripercussioni di questa crisi – stanno esponendo intanto alla visibilità generale l’esistenza di un valore d’uso coincidente con la serietà professionale tutt’uno con la com/passione e solidarietà umana, insospettabile per i mercanti del plusvalore dannati invece a inseguire il valore di scambio spazzato via dai monsoni della crisi. Bando alla retorica dell’eroismo, la capacità concreta di svolgere il proprio lavoro di sanitario è indistinguibile dal sentirsi membro di una umanità sofferente cui ci si prodiga come unica identità possibile. L’essere umani, di cui i mistificatori dell’eroismo si meravigliano, comporta il possedere un’etica che impone la cura della vita, l’uso della propria competenza finalizzata a salvare la vita altrui quale specchio di sé stessi. E’ un uso sconosciuto a chi rincorre la valorizzazione appropriabile del lavoro eseguito nella normale mortificazione di chi lo ha effettuato, come è sconosciuto a chi usa la professione per ricavarne denaro come unico fine. I rapporti materiali dominanti, rispecchiati nelle forme politiche e giuridiche che ci governano e che hanno depredato la sanità pubblica – quale ocus specifico in questo frangente –, fanno apparire le relazioni umane non come immediatamente sociali fra persone all’interno dei loro lavori concreti, ma come rapporti sociali tra cose che si scambiano. Per questo sistema la sanità – e quindi tutti i suoi operatori – non produce salute o salvezza di vite umane, ma profitti e compromesso sociale per il mantenimento dei capitali sovraordinati. Questa apparente dicotomia, frutto della coincidenza del dominio transitorio e di questo modo di produzione reale, fa emergere oggi la superiorità oggettiva dell’abnegazione di lavoratori che hanno rimesso al loro posto i valori materiali ed essenziali della vita in genere, come primato assoluto del proprio lavoro il cui uso precipuo è ricerca, solidarietà, aiuto reciproco tra umani che si riconoscono come specie naturale e come società reale nella storia. L’alienazione capitalistica del modo di produzione di questa epoca storica non cancella l’oggettivazione concreta delle sue innovazioni, conquiste sociali e coscienziali, valori umani e civili, ecc. La loro distorsione non ne implica necessariamente la distruzione materiale.
La sanità pubblica residua, peraltro una delle voci del salario indiretto, risulta così inadeguata a fronteggiare la pandemia che non solo scoperchia il bottino della inestinguibile guerra di classe perpetrata, ma fa risuonare l’allarme dell’effetto guerra dirottato sul solo virus. Dalle accuse piovute facilmente a pioggia, il sistema prova a difendersi nascondendo il numero dei morti, dei necrologi, dei contagiati, dei lavoratori obbligati al lavoro causa di contagi incontrollabili, evitando i tamponi, ecc.
Il bollettino soltanto indicativo di questa guerra ormai da aggiornare: il 73% delle aziende medio-grandi della bergamasca hanno continuato a lavorare coinvolgendo 500.000 lavoratori su 2.500.000, ripartiti tra tessile, metalmeccanico, chimico, gomma, contoterzisti per la Germania. In una fabbrica di ingranaggi sono stati considerati malati solo quelli cui viene fatto il tampone, gli altri non vengono contati. Le aziende non sono messe in quarantena se non hanno contagi interni. Chiusura dopo 20 giorni di prosecuzione del lavoro. Alcuni lavoratori si dichiarano malati per avere diritto alla quarantena. Il 27% ha chiuso l’attività. I morti sono 5 o 6 volte superiori alle stime ufficiali. Anche col moltiplicatore fino a 10. Formigoni ha chiuso 28 ospedali. Dirottamento sui privati con un livello qualitativo inferiore al pubblico. Chiusi ospedali nella Val Brembana. Il S. Giovanni Bianco è stato dichiarato antieconomico. Il business ha riguardato anche le residenze degli anziani, ora le più colpite. Siccome le strutture sono state ridotte, si muore a casa. La terapia intensiva non rende, quindi la riforma sanitaria ha privatizzato i cronici ma non per tutte le patologie. Analisi più rapide. L’inefficienza pubblica è stata così pilotata, rendendo anche “necessario” l’accorpamento dell’intramoenia. I morti sono in casa, in ogni famiglia.

Molti si chiedono quale sarà l’esito di questa sconvolgente esperienza, cosa cambierà e cosa rimarrà nelle nostre istituzioni, nella nostra società, nelle nostre coscienze, abitudini, ecc. Al momento non ci sono risposte, solo possibili ipotesi, tranne quella che ormai tutti sanno: l’uscita dall’incubo sarà la messa a punto del vaccino da estendere universalmente. Se il sistema di capitale sopravvivrà al covid 19 – come è purtroppo presumibile – se ne rafforzerà anzi la gestione anche di questa ricerca, che sarà appropriata da qualche laboratorio della Big Pharma o da qualche altro colosso farmaceutico traducendolo in benefici profitti. La ossessiva conta dei morti quotidianamente avviata, si concluderà con dei numeri così alti da costituire una necessità inderogabile ad acquistare l’agognato vaccino, riconquistando così gli stati più deboli da indebitare ulteriormente, o ricattando quelli cosiddetti alleati o concorrenti con “accordi bilaterali” o scambi vantaggiosi.
La scienza, va rammentato, è solo una branca di questo modo di produzione e il suo uso politico diventa un’arma a disposizione di chi ne gestisce il dominio. Sulle popolazioni decimate, non importa se da guerre, fame, inquinamenti, malattie, ecc. , si può sempre contare che siano accondiscendenti se non addirittura grate di esser sopravvissute e poi curate. La guerra di classe contro le popolazioni continua anche sotto queste insospettabili forme, addebitando alla “natura” sfuggita al controllo il disastro umanitario e avocando al proprio magnifico e munifico potere la scoperta del vaccino anelato. La condizione degli scienziati potrà anche essere migliorata con qualche briciola in più di reddito, ma la loro subalternità e dipendenza specialistica rimarrà intatta al servizio del capitale, libero di sfruttarli apparentemente per il bene della “comunità” umana, da cui intascare i miliardi dovuti.
La poesia che B.Brecht ci ha lasciato in eredità non è solo una poesia, è un’analisi del funzionamento di questo sistema finché non sarà superato da un altro. E’ soprattutto un’analisi di quello che deve e può essere il contributo a questo superamento da parte di chi ne rimane subalterno o vittima, anche quali loro sostituti e successori. Riconquistare la priorità del valore d’uso, della materiale concretezza del nostro lavoro e del nostro ruolo sociale, non lasciandocelo capovolgere o ipocritamente glorificare, significa non solo prendere coscienza di una realtà finalmente visibile, ma anche sviluppare da questa la capacità di lotta necessaria a che la spoliazione della maggior parte della popolazione mondiale abbia termine. Accumulare forze e lottare contro questo sistema tendenzialmente sempre più distruttivo ha come corollario lottare anche contro questo e i prossimi virus che si abbatteranno sulle vite di tutti, secondo previsioni scientifiche già effettuate.
Tassare per ora i capitali a favore della sanità mondiale: questo il nostro obiettivo, cerchiamo insieme le forme politiche minime, ma concrete, con cui realizzarlo.

Crisi economica e crisi sanitaria

6 Mar

Una intervista su Radio onda d’urto sulla crisi e il Coronavirus

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Presentazione – l’Imperialismo di Lenin

26 Feb

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La cosiddetta questione ambientale

3 Dic

di Carla Filosa

Nella misura in cui l’interessamento generale ai problemi ambientali è diventato di moda, non si può fare a meno di affrontare l’argomento mentre si è stupiti, eufemisticamente, per le variegate forme ideologiche in cui questo viene isolato da ogni altro condizionamento storico, sociale, politico, economico, ecc. Per privilegiare gli aspetti di fondo del cambiamento climatico, e cosa si deve intendere per ambiente, si è costretti a dare per scontato, almeno parzialmente, l’innumerevole elenco delle modalità e degli effetti registrati ormai da tempo da questi scienziati di tutto il mondo. Non solo loro, infatti, in antitesi agli interessi dei negazionisti alla Trump o alla Bolsonaro, si preoccupano per l’equilibrio del pianeta a causa del riscaldamento climatico e lanciano un allarme ai paesi e alle classi più povere del pianeta, da sempre più esposti a disastri ambientali di ogni tipo (innalzamento dei mari, uragani, tsunami, ecc.). In questo breve excursus si dà credito quindi alle numerose analisi e relazioni degli scienziati del clima e dell’ambiente in generale, non tralasciando denunce di autorevoli politici o magistrati sui danni localizzati determinati da interessi oggettivamente criminali, mentre nel contempo si verifica che l’analisi scientifica marxiana è ancora la sola in grado di individuare le cause reali e complesse del degrado crescente degli assetti sociali e territoriali, estesi ormai a livello globale. La mistificante “autonomia” delle devastazioni presenti e future relative all’“ambiente”, da parte di un dominio economico che al contrario ne determina un progressivo accadimento in forme per lo più irreversibili, dev’essere pienamente smentita unitamente a tutte le legittimazioni e palliativi ideologici, escogitati per far fronte agli effetti senza intaccarne le cause, libere così di continuare a distruggere risorse naturali e esseri umani, inquinare aria, acqua e terreni.

In un’ottica di contrasto a tali manipolazioni, va innanzi tutto riaffermato che storicamente il cambiamento naturale si sviluppa unitamente a quello umano, la cui esistenza e riproduzione è possibile attraverso un intervento attivo su tutto ciò che lo circonda, in base ai propri fini. Da sempre l’operosità o successivamente il lavoro umano, indipendentemente da ogni specifica forma della sua organizzazione, ha tratto dalla natura i materiali necessari ai bisogni sociali del suo tempo. In tal senso si può anche dire che si è posto come soggetto (naturale, come lo è il genere umano proprio nelle sue forze attive) di fronte alla materialità della stessa natura. Ciò significa che la forza produttiva umana, nell’uso progressivo dei materiali e delle energie naturali, ha inevitabilmente modificato assetti naturali originari andando a costituire quello che poi generalmente consideriamo come ambiente. Non si può quindi prescindere da questo percorso storico in cui per ambiente deve considerarsi la trasformazione, attuata, di una natura in funzione di fini umani determinati da identificare, la cui omissione costituirebbe mistificazione rispetto ad un’analisi seria dei problemi, su cui tutti siamo chiamati ad informarci e ad intervenire nei modi possibili e opportuni. Trattare pertanto le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate, cioè indipendentemente dai mutamenti specifici delle finalità umane, non solo è deviante rispetto alla lettura degli effetti rilevabili, ma impedisce soprattutto l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere,  per il ripristino, se si è ancora in tempo, di una naturalità planetaria oggi considerata come altamente compromessa.  La conoscenza della peculiarità del modo di produzione attuale diventa allora l’unica via di approccio corretto alla pluralità degli elementi da tenere presenti nell’analisi dei cosiddetti problemi ambientali.

Finché il processo produttivo umano ha usato la materia naturale per il proprio fabbisogno, anche in quantità eccedente, il ricambio organico con la riproduzione naturale non è stato intaccato in modo disastroso o irreversibile per le leggi del suo funzionamento, nonostante la mancanza di conoscenze o di mezzi per il procacciamento del cibo abbia potuto determinare, nel lontano passato, l’ uso di terreni o bestiame in forma localmente distruttiva. Con il modo di produzione soggetto al dominio del capitale, invece, il processo lavorativo umano viene a coincidere con il processo di valorizzazione, ovvero con la finalità umana volta non più al bisogno sociale – se non in forma strumentale – bensì all’aumento quanto più possibile di un valore lavorativo da appropriare privatamente. La prevalente esclusione sociale dalla ricchezza, quantunque socialmente prodotta, a favore della sua  accumulazione sempre più concentrata in poche mani, comporta quindi una diversa valutazione della natura, concepita ora come cava inesauribile di risorse da utilizzare al massimo possibile per l’incremento di profitti privati, quale forma predatoria dominante e necessaria al sistema. La mercificazione della forzalavoro umana, interna all’essenziale formazione di detti profitti, deve così tendere a una capacità produttiva sempre maggiore, analogamente all’appropriazione illimitata di risorse naturali ovunque localizzate per l’ampliamento intensificato del loro uso, quale progressiva compressione dei costi di produzione. La condizione soggettiva di fornitori di pluslavoro, in quanto salariati nella fase produttiva, si unisce quindi alla base materiale della natura per la produzione di valori d’uso. Pur essendo questi però realtà ineliminabile e permanente, sono considerati solo come veicolo di valore (tempo di lavoro socialmente necessario per la trasformazione lavorativa) e plusvalore (quota di lavoro gratuito appropriato).

Lo sviluppo storico di questo sistema ha ulteriormente portato alla monopolizzazione delle forze naturali, sulla base di un diritto consuetudinario avocato a sé dai detentori della proprietà privata. Tale diritto ha inavvertitamente determinato poi la separazione tra le condizioni naturali inorganiche del ricambio materiale essere umano-natura, per la gestione e controllo comunitario delle popolazioni, demandando per lo più a forme statali e/o sovranazionali l’amministrazione degli interessi proprietari dietro cui opportunamente restare celati. Lo stesso diritto quindi che porta all’accumulazione privata ha fatto sì che questa non apparisse più nella realtà scaturita dal lavoro sociale ma, separata da questo, fosse considerata come autonoma condizione proprietaria, cui spettassero le materie prime, gli strumenti di lavoro e i mezzi di sussistenza per mantenere i lavoratori durante la produzione, prima che fosse compiuta. Solo nel capitalismo dunque la natura non è più considerata come forza per sé, nel cui uso era compreso rispetto, ripristino od anche timore. Diventa un oggetto utile da subordinare ai bisogni umani asserviti da dilatare poi illimitatamente per incrementarne il consumo, che a sua volta si rovescia sul potenziamento continuo dello sviluppo delle forze produttive per  realizzare valori d’uso per altri, valori d’uso sociali. Nel loro interno deve celarsi sempre più valore e plusvalore quale scopo dominante, riducendo di conseguenza la materialità naturale a mero strumento indiscriminatamente modificabile. La subalternità oggettivata dei rapporti sociali di produzione in cui si inscrive la diseguaglianza di classe, come pure la tutela dell’ambiente estranea a tali fini, realizza così il divario tra diritto proprietario e giustizia sociale, nonostante il tentativo ideologico di riaffermarne l’unità nei tribunali o nei dibattiti politici.

È poi con la monopolizzazione delle forze naturali che il capitale riesce ad ottenere preziosi plusprofitti, incorporando sia una qualunque forza naturale (ad esempio una cascata d’acqua,), sia la forzalavoro destinata a trasformarla. La forza naturale costituisce un conveniente  risparmio di costi e un vantaggio concorrenziale rispetto ai capitali che non riescono a disporne, ma “non ha un valore, in quanto non rappresenta un lavoro oggettivato in essa e quindi nemmeno un prezzo che non è altro che una rendita capitalizzata.” (Gianfranco Pala, L’ombra senza corpo, La Città del Sole, Napoli). Tale proprietà consente perciò di impadronirsi di un profitto individuale maggiore del profitto medio, da capitalizzare ogni anno, e che appare quale prezzo della forza naturale stessa. Risulta evidente poi che siffatta proprietà, che non sia toccata in sorte da un destino favorevole, può essere conquistata con la forza militare, mediante corruzione, ricatto creditizio o politico, debito pubblico, ecc., determinando così la disgregazione sociale, politica e ambientale di paesi o territori che invece ne siano casualmente dotati. Tale ricchezza  terriera, idrica o mineraria diventa perciò come una maledizione per la popolazione autoctona, se il paese in questione si trova nella geografia già stabilizzata della dipendenza gerarchica dalle multinazionali o catene monopolistiche transnazionali. È il caso, ad esempio,  del coltan (columbo-tantalite),  che si trova solo in Australia e in Congo, ora sembra anche in Amazzonia, ed è utilizzato  per piccoli condensatori, cellulari, high tech, ecc. La sua estrazione in Congo è costata, nel 1998, un numero di vite umane contate in 4 o 11milioni di morti (a seconda dei rapporti internazionali), per la sua rarità e quindi per la contesa relativa alla sua appropriazione conflittuale con Ruanda, Uganda e Burundi. Le conseguenze di danni ambientali in riserve e parchi nazionali sono dovute alla privatizzazione delle concessioni – si fanno i nomi di Nokia, Eriksson, Sony –, che hanno praticamente distrutto anche la coesione sociale, introducendo di fatto la coercizione allo scavo per fame della popolazione anche infantile, definita “schiavitù volontaria”.  Questa è l’interpretazione pertinente e più attuale del concetto di lavoratore “libero” che il capitale ai suoi inizi aveva giuridicamente e apparentemente creato secoli fa.

Se la natura è quindi dominabile sul piano del suo uso, o ricambio organico o metabolismo per la sussistenza umana, non per questo le sue risorse sono illimitate o possono essere ottenute con mezzi distruttivi degli ecosistemi. Lo sviluppo scientifico che il capitale ha promosso, con maggiore rapidità e universalità rispetto ad ogni altra epoca storica, è un lato del progresso umano che sicuramente trascende la limitatezza di questo modo di produzione, pur restando sempre bruta necessità di rivoluzionare costantemente le sue forze produttive nel superamento della conflittualità interna al suo essere pluralità  e unità contraddittoria. In altri termini è proprio in questo sviluppo antitetico senza quartiere che si generano le crisi da sovrapproduzione, da cui la brama di innovazione tecnologica e contemporaneamente speculativa, se non anche le guerre per l’appropriazione energetica, di materiali necessari all’industria bellica più avanzata, di sostegno alle valute dominanti di riferimento, di controllo strategico di territori, ecc. La distruzione di capitali necessaria alla soluzione delle crisi strutturali, ricorrenti, cicliche di questo sistema comporta anche la distruzione umana e di risorse propria delle forme belliche, mentre in tempo di pace si avrà disoccupazione o blocco produttivo, inflazione, pauperizzazione delle fasce più deboli della popolazione, emarginazione, ecc. La correlazione tra distruttività sociale e naturale risulta pertanto strettamente saldata nel funzionamento di riproduzione delle condizioni di ripresa dell’accumulazione di plusvalore di questo sistema, strutturalmente nell’impossibilità di fuoriuscire dalle intrinseche contraddizioni: “Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo… si manifesta sempre più come una potenza sociale…estranea, indipendente che si contrappone alla società.. è la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono… quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata” (K. Marx, Il Capitale).

La coscienza ecologica nasce per lo più al di fuori della consapevolezza di tali concatenazioni necessitate dal permanere di un sistema da tempo definito putrescente. In passato sono stati ipotizzati processi economici da un punto di vista termodinamico (Podolinskij 1880), entropico (Georgescu-Roegen), della decrescita più o meno felice ed altre utopie che qui si tralasciano, per dare conto solo di qualche denuncia degli ultimi tempi innestata sulla paura dei “mutamenti” climatici potenzialmente catastrofici. Piccoli stati insulari dell’America Latina, oltre ad altri continentali che soffrono il dominio statunitense quasi fosse una calamità naturale, ne denunciano la mancata volontà di frenare il riscaldamento globale in termini di ecoterrorismo. La voce che accusa di terrorismo ambientale è quella di Edgar Isch Lopez, ex ministro dell’ambiente in Ecuador, secondo cui “chi non salvaguarda l’ambiente come patrimonio di tutti in tempo di pace, lo salvaguarda molto meno in tempo di guerra”. Tra gli “atti deliberati per garantire il proprio vantaggio a detrimento di quello degli altri” si può forse includere allora il recente incendio appiccato, per conto del presidente brasiliano Bolsonaro, pupillo usamericano,  alla foresta amazzonica apertamente dichiarata di sua proprietà. Il terrorismo ambientale – di cui parla ancora Lopez – quale strumento addizionale alla guerra ingaggiata contro i paesi riluttanti al dominio Usa, ovvero alle sue imprese o strutture finanziarie, prende corpo con la devastazione perpetrata dalla Texaco nella regione ecuadoriana di Sucumbios, per l’estrazione petrolifera. Più in generale si tratta di una nuova strategia di dominio in cui i disastri naturali sarebbero come un’arma atta a determinare danni superiori a quelli dei conflitti a bassa intensità, per l’uso di tecnologie di ultima generazione. Nel 1974 il Pentagono ha rivelato gli sforzi per indurre piogge impreviste su Vietnam e Cambogia, per rendere impossibili gli spostamenti alle truppe di liberazione. Nel 1978 il Progetto Satellite a energia solare (SPSP) utilizza dei laser per fini militari. Il Progetto di Ricerca Aurora Attiva Alta Frequenza (HAARP) a Gokoma (Alaska) con lo sfruttamento della ionosfera altera regimi meteorologici, intercetta comunicazioni e radar nemici. Michael Chossudovsky della Global Research (Canada) dichiara alla Commissione Europea di non avere giurisdizione per intervenire nei “vincoli tra ambiente e difesa”. I cosiddetti “danni collaterali”, che ovviamente non riguardano la  morte di esseri umani – per sua natura irreversibile – ma per distruzioni di città, edifici, fabbriche, ecc. diventano profitti da incamerare per la ricostruzione già accordata alla preminenza bellica. Alla desertificazione da napalm, diossina, diserbante arancione, ecc. in Vietnam, e all’inquinamento da fosforo bianco, uranio impoverito, ecc. in Iraq, è seguito il Progetto di Bonifica ONU (PNUMA) di circa 40 milioni di dollari – essendo il dollaro ancora moneta di riferimento internazionale. Le leggi, ovunque, non possono essere di impedimento agli interessi. Questi le invocano solo in quanto garantiscono loro la “sicurezza giuridica” per mantenere l’esercizio del loro arbitrio.    

Il Protocollo di Kyoto (11.12,1997) cui aderirono più di 180 Paesi, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul riscaldamento climatico (UNFCCC) entrò in vigore solo il 16.02.2005 con la ratifica della Russia. Nel 2013 i Paesi aderenti erano diventati 192. Siccome l’accordo di ridurre le emissioni di gas  al 7% risultò troppo costoso per le industrie Usa, le cui emissioni  erano di circa il 14% ridotte di poco nel 2002, il loro governo non lo firmò. Il 40% delle imprese europee si comportarono un po’ diversamente, ma sostanzialmente in modo analogo. In un rapporto di Greenpeace viene dimostrato che il 98% dei finanziamenti della Banca Mondiale sono destinati a progetti industriali che incrementano il riscaldamento del pianeta. La riduzione, infatti, potrebbe automaticamente determinare il trasferimento delle industrie inquinanti da alcuni Paesi negli altri che al contrario si mantengono come “paradisi” delle emissioni. Continuamente avvengono le cosiddette “delocalizzazioni” (ignorando così il significato del termine che indica una dismissione dell’attività, un non-luogo definitivo, al posto di “dislocazioni” che invece lascia intendere il solo mutamento di luogo)  perseguite o per vantaggi fiscali, o per dumping lavorativo, o per “libertà” d’inquinamento o per un ottimale mix di tutti questi fattori, in piena sicurezza d’impunità giuridica eventuale.

L’ alterazione del clima “non è un problema di ambiente ma di sviluppo, che comporta un aumento di povertà, fame, malattie, incrina la sicurezza nazionale, regionale e internazionale”. A dirlo è un esperto Usa, Robert Watson che non teme di affermare che i principali responsabili delle emissioni di gas a effetto serra (CO2 in primo luogo) sono i Paesi più industrializzati mentre quelli “in via di sviluppo” – o dominati – sono i più colpiti. “Sviluppo” non è sinonimo di “crescita economica”, ma di lucro privato. Ogni anno sparisce l’1% delle foreste tropicali e il riscaldamento globale promuove il commercio illegale di specie, mentre diminuisce il 2% delle differenze genetiche nelle coltivazioni per l’imposizione del transgenico quale convenienza delle imprese transnazionali. A causa della pesca eccessiva – ad esempio – sono in pericolo le specie ittiche del Mediterraneo, del Mare del Nord, delle Galapagos e altri. Un altro genere di degrado ambientale proviene dalla necessità di ottenere gas e petrolio, per un vantaggioso ribasso dei costi, mediante la “fratturazione idraulica” delle rocce di scisto. Si attua una perforazione del terreno a 3.000 metri di profondità rivestendo poi il canale di cemento dentro cui si fanno passare cariche esplosive, da cui si producono fori che lasciano passare gas o liquidi; in una seconda fase si pompano fino a 16.000 litri di liquidi sotto pressione, più agenti chimici, sabbia, ghiaia o terra. Dalla frattura delle rocce si libera il gas o petrolio che risale lungo il canale di cemento, che poi viene raccolto e portato alle raffinerie. L’hydrofracking viene praticato per lo più in Usa e Canada, ma anche in Polonia, Germania, ecc. Oltre l’enorme spreco di acqua, le sostanze chimiche iniettate nel terreno, che per il 20% circa rimane sotto, possono contaminare falde acquifere con benzene, piombo, diesel, formaldeide, acido solforico, ecc. potenzialmente cancerogeni, oppure con isotopi radioattivi di antimonio, cobalto, zirconio, krypton, e altri. In seguito a questo trattamento sono state rilevate anche scosse telluriche (in Oklahoma nel 2011), sebbene per ora di scarsa entità.

Il “fascino discreto”  di tanti teorici dell’aggiustamento del sistema di capitale senza intaccarlo, in alcuni casi chiamato anche “green economy” per la sua vocazione al “rispetto ambientale” dichiarato, non può riguardare chi sceglie di guardare in faccia la realtà. Alcuni nomi: Jean Paul Fitoussi, Francis Fukuyama, André Gorz, Serge Latouche, Antonio Negri, Jeremy Rifkin e molti altri hanno in vario modo  alimentato l’interesse e le discussioni impegnate di tanti intellettuali e politici anche “disinistra”, nello sforzo di mantenere nell’ombra le strategie di sopravvivenza del capitale. Nessuna nostalgia per la sinistra che fu, e neppure ormai aspirazione a questa identità poco attraente con cui essere erroneamente scambiati; o si inseguono le trasformazioni di questo sistema nel suo permanere sostanziale, per contrastarlo sul terreno delle sue contraddizioni individuate, o meglio nuotare come sardine.  Gli ultimi tentativi di inquadrare i problemi ambientali si ritrovano sotto un titolo apparentemente cólto: Antropocene, molto presente nel dibattito internazionale. In questa parola si rintraccia l’intento di caratterizzare l’epoca in cui si attua il predominio  dell’azione umana sul pianeta, assumendo l’umanità come totalità omogenea. Per chi ha ancora di fronte l’aumento delle “disuguaglianze sociali” lette in un’ottica di classe, cioè funzioni di un sistema economico specifico, tanta genericità inconsapevole, o proprio rozzezza teorica,  non riesce a convincere. Più interessante risulta invece Jason Moore che risponde con un libro intitolato “Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria”, per riferirsi alle trasformazioni inscritte nei rapporti di potere capitalistici. Il termine antropocene – scrive Moore – “diviene problematico… se si impone, come è accaduto, come un significante vuoto, una parola alla moda che nega ‘la disuguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo’,…  ponendo sullo stesso piano sfruttati e sfruttatori, colonizzati e colonizzatori, bombardati e bombardieri, subalterni e dominatori, espropriati ed espropriatori”.

Senza poterci soffermare sulle articolazioni particolareggiate di queste teorizzazioni, per ovvi motivi di spazio, si lascia agli interessati la segnalazione dell’ultimo grido della battaglia delle idee, con un ultimo sguardo alla cruda realtà emblematica di Taranto sotto i nostri occhi. Ѐ un ultimo aspetto del degrado che riunisce pertanto la natura agli umani nel loro comune squallido uso, non all’attenzione come il riscaldamento climatico ma tuttavia efficace nel mostrare il nesso che salda il lato distruttivo del progresso capitalistico ai suoi miserabili fini. Produzione al massimo dello sfruttamento lavorativo e risparmio dei costi proprietari, massimizzazione dei profitti e inquinamento mortale allargato alla popolazione inizialmente ignara del rischio. Tutta la zona è ormai invasa dalle polveri sottili del “minerale” che entra nei polmoni nella costrizione a dover continuare a morire per vivere un po’. La violenza del profitto sembra invisibile quando non è armata con le armi convenzionali, quando si maschera dietro l’indifferenza per la morte altrui, dietro il silenzio del pericolo per l’altro, dietro uno scudo legale, ecc. Anche se gli operai dell’Arcelor-Mittal non conosceranno le teorie di bonifica di questo sistema, ora hanno ben chiaro che la bonifica del loro habitat confligge con gli scopi proprietari. Questi nomi sono sui loro muri.